PER RIFLETTERE SUL VANGELO
Gv 6,37-40
“Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”. La morte è l’estremo traguardo dell’esistenza, quello che agli occhi della carne appare come un muro nella luce della fine diviene una porta che ci fa entrare nella casa di Dio. Non è la fine di ogni speranza ma un nuovo inizio. Non è il vuoto ma l’approdo luminoso. È questa l’annuncio che oggi risuona. Questa certezza non elimina il dolore. La Chiesa non chiede l’impossibile. Il ricordo delle persone care che hanno già concluso i giorni terreni è sempre rivestito di intima sofferenza. E difatti la liturgia odierna non prevede il colore bianco, icona e annuncio della resurrezione, ma quello viola che richiama la penitenza e invita alla purificazione. Fare memoria dei defunti significa stare tra cielo e terra: da una parte sperimentiamo il dolore, e dall’altra gustiamo la gioia dell’eternità. Alla morte del caro papà S. Teresa di Gesù bambino scrive: “Ricongiunto tu sei lassù alla cara Mamma, che nella Patria Santa t’ha preceduto. Ora tutt’e due nel Ciel regnate: vegliate su noi!”. La morte segna il definitivo ricongiungimento con la sposa che lo aveva preceduto nella Patria. La fede non ci fa restare prigionieri del passato ma c’immerge nell’avvenire, non guarda a quello che si lascia ma a quello che si trova.
Impariamo così a vivere la vita come un pellegrinaggio che trova la sua ultima destinazione nell’abbraccio di Dio. In Lui e con Lui gustiamo la pienezza della gioia. È Dio la vita, Lui solo può rivestire di vita i nostri giorni. Se Dio accompagna i nostri giorni, vuol dire che l’eternità è già qui, in questa storia fragile e misera. Vivere ogni impegno alla presenza e nella luce di Dio significa sentire fin d’ora il palpito dell’eternità. E chi vive così non teme il momento in cui tutto finisce perché sa proprio allora tutto riprende vita. Oggi chiediamo la grazia di vivere con lo sguardo rivolto al Cielo.