PER RIFLETTERE SUL VANGELO
Gv 16,20-23a
“La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora”. L’annuncio della passione ha gelato ogni speranza, i discepoli sono avvolti dall’angoscia perché in quel momento vedono solo l’oscurità del dolore. Gesù chiede un surplus di fiducia, annuncia che la vita sgorga dalla croce. È una parola oggettivamente difficile da comprendere. Per questo ricorre ad un’immagine che appartiene all’ordine naturale delle cose ed è perciò immediatamente intellegibile da tutti. Il parto è un passaggio doloroso ma necessario, è lo spazio sacro in cui la creatura esce dal buio e viene alla luce. Un evento carico di gioia ma anche, e inevitabilmente, attraversato dal dolore e dalla paura. Ricordiamo che nel passato partorire era assai pericoloso e non poche volte era causa di morte. È comprensibile perciò la trepidazione con cui la donna si prepara ma “quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo”. L’annuncio è chiaro: come la sofferenza del parto prelude alla gioia, così la passione precede e prepara la resurrezione.
Nel calendario della vita, il parto è l’ora della sofferenza ma quel dolore ha una sua intrinseca fecondità. Una mamma accetta di passare attraverso il dolore del parto perché sa che il dolore non è fine a se stesso ma è la via obbligata per generare la vita. È un annuncio che forse abbiamo dimenticato. Siamo abituati a pensare al dolore come un limite, un ostacolo, qualcosa che impedisce di realizzare i progetti che abbiamo messi in cantiere. La sofferenza appare oggi come un insulto alla gioia di vivere, come spazzatura da buttare. Gesù invece annuncia che il dolore genera vita. Non il dolore in quanto tale ma quel dolore che viene accolto e vissuto per amore e con amore. Nella vita possiamo incontrare opposizioni o incomprensioni, insuccessi e delusioni. Non importa! Dobbiamo sapere che non possiamo servire il Vangelo se non siamo disposti a soffrire. “A voi è stata data la grazia non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui”. Così scrive Paolo alla comunità di Filippi. È una regola antica ma sempre valida.